comprensione del vuoto

La visione predominante della nostra cultura scientifico-tecnologica assume l’esistenza del mondo oggettivo come fondamentale. La materia occupa il centro del palcoscenico, mentre la coscienza è generalmente vista come un epifenomeno (sintomo collaterale) di certi processi materiali, una proprietà emergente del mondo oggettivo che si manifesta quando un sistema nervoso di un certo grado di complessità viene a esistere. Tuttavia, questa visione si è rivelata inadeguata nel rendere conto della specificità della coscienza, come evidenziato da Thomas Nagel nel suo libro dal titolo volutamente ingenuo Cosa si prova a essere un pipistrello?.

Questa prospettiva materialista risulta altrettanto insufficiente per comprendere l’enigma del processo quantistico. Solo una filosofia che pone l’atto dell’esperienza come primario e fondamentale, considerando i due poli, soggetto e oggetto, come co-emergenti in tale atto, può abbracciare pienamente la realtà rivelata dalla fisica quantistica. Sorprendentemente, queste riflessioni trovano una loro dimora in un testo, probabilmente compilato nell’arco di centinaia di anni, giunto fino a noi con il nome di Daodejing (o Tao Te Ching). Questo classico della letteratura cinese è una fonte primaria di ispirazione per pratiche corporee, mentali e spirituali, tra cui anche il Taijiquan che attinge a tale filosofia come spiegato approfonditamente nei testi Classici.

Il Dao chiamato Dao, non è il vero Dao. Ogni nome che si può nominare non è un nome eterno.

La frase si legge come parte integrante del primo passaggio del Daodejing.

Cosa si prova a essere un pipistrello? Ciò che vediamo, capiamo, viviamo non è mai svincolato dalla peculiare percezione «coscientizzata» che ci isola nella nostra specificità di individui e di esseri umani. Così per tutti, pipistrelli compresi. Ecco allora che a partire da una domanda semplice e apparentemente ingenua si spalanca tutto un ampio panorama di grandi questioni filosofiche, che in un irresistibile crescendo conducono il pensatore dal problema del rapporto soggetto-mondo e mente-corpo a un’interrogazione sulle possibilità e i limiti della scienza e di una conoscenza oggettiva in generale, fino alla prospettiva di un linguaggio a venire che permetta di aprire un varco tra i tanti vicoli ciechi in cui sembriamo destinati ad arenarci.

Nella filosofia daoista, i nomi sono relativi, contingenti, e hanno senso solo per fini particolari; non toccano la realtà. Per “nomi” si intendono tutte le rappresentazioni della realtà: essi abbracciano l’intera dimensione del rappresentare un mondo. Non appena l’io identifica un sé e un altro da sé, i nomi hanno origine. Con i nomi nascono le cose. L’universo diventa un universo di cose proprio perché è un universo “nominato”. Le cose non preesistono alla coscienza: esse emergono nell’atto del nominare.

Si potrebbe creare una rappresentazione nella quale prima esistono le cose (il big bang, l’evoluzione dell’universo, la formazione delle molecole organiche, ecc.), e poi, a un certo punto, nella materia si sveglia qualcosa che chiamiamo coscienza, che inizia a guardarsi intorno. Tuttavia, non bisogna dimenticare che questa è solo una rappresentazione – valida e efficace nel contesto del pensiero tecnologico contemporaneo –  nella quale comunque “una mappa, non il territorio”. L’universo, vecchio di circa 13 miliardi di anni (secondo alcune recenti teorie), sorge insieme alla coscienza che lo contempla come tale.

Questa è essenzialmente anche la prospettiva alla base del pensiero postmoderno. Una classica formulazione di essa è la famosa metafora, sopra parafrasata, di Alfred Korzybski: “La mappa non è il territorio”. Un’affermazione apparentemente ovvia che, tuttavia, intesa in senso ampio, colpisce alla radice ogni tentativo di imbrigliare la realtà in un sistema di pensiero. Korzybski ci ricorda che ogni descrizione della realtà mediante un linguaggio non è altro che una mappa. L’universo del discorso è l’universo delle mappe, mentre la realtà, il “territorio”, resta eternamente al di là di tale universo.

Questa edizione del Daodejing oltre al commentario, contiene tre studi inediti dedicati ad altrettanti temi cruciali per la comprensione dell’opera. L’intento complessivo della trattazione è definire categorie portanti della gnoseologia cinese, affinché il testo più emblematico del Taoismo sia inserito a pieno titolo nell’odierno dibattito filosofico. All’interno di un autentico confronto interculturale infatti non si possono più eludere principi che innervano e alimentano la mentalità cinese contemporanea.

Un’altra geniale e ironica formulazione dello stesso concetto, che il mitico Laozi (presunto autore del Daodejing) avrebbe sicuramente apprezzato, è rappresentata dalla pipa di René Magritte. Nel 1929, l’artista surrealista dipinse un quadro intitolato L’inganno delle immagini. L’inganno, come suggerisce Magritte, non si limita alle immagini ma si estende a ogni forma di rappresentazione: un persistente errore umano è la reificazione dei nostri costrutti mentali, ovvero scambiare il concetto per la cosa – un errore assimilabile, concettualmente, a confondere il fine con il mezzo. Puoi approfondire anche leggendo Dao e Ji, concetti fondamentali del pensiero tradizionale cinese.

Anche se l’antico daoismo e il pensiero postmoderno condividono una stessa epistemologia relativista come punto di partenza, divergono nei loro sviluppi. Entrambi affermano che la realtà è indicibile, eternamente al di là dell’universo del discorso. Tuttavia, mentre il pensiero postmoderno si concentra sull’universo del discorso come creatore di realtà intersoggettivamente condivise, di mondi sociali, l’interesse dei daoisti è rivolto esclusivamente verso la realtà indicibile. La dimensione esistenziale è ciò che conta. La parola Dao (o “Via”) indica ciò che sta oltre il dicibile, ciò che non ha nome e di cui si può parlare solo attraverso paradossi e allusioni, ciò che è più antico di “cielo e terra”, il “vuoto” che precede la dualità di soggetto e oggetto, coscienza e mondo.

La comprensione del vuoto (Xu, 虚) attraverso la pratica del Taijiquan

Il Taijiquan è una delle pratiche figlie del pensiero daoista che più facilmente avvicinano gli occidentali a mondi inaspettati, offrendo nuove consapevolezze e prospettive sulla “realtà” e sulla vita. Come in ogni pratica, è necessario lasciarsi alle spalle preconcetti e pregiudizi legati alle idee di realtà avute fino a oggi. Il Taijiquan, spesso trascritto come “Taichi”, può essere un ottimo mezzo per intraprendere un viaggio esperienziale alla ricerca della dimensione del “vuoto” – il “vuoto” che è “la madre dei diecimila esseri” (dal Daodejing), il vuoto da cui ogni cosa scaturisce e a cui ogni cosa ritorna.

Nel libro I tre Classici del Taijiquan di Wang, Wu e Li sono tradotti e commentati quelli che in Cina sono tutt’oggi considerati i primi e più importanti manoscritti della storia del Taijiquan. La traduzione dei tre manuali originali è accompagnata da spiegazioni approfondite di ogni frase, da un punto di vista pratico, teorico e linguistico. Ogni passaggio del libro è inoltre supportato da un commentario nel quale vengono approfonditi anche gli aspetti di natura filosofica e storico culturale che sono indispensabili per una corretta comprensione della materia trattata.
Nel libro I tre Classici del Taijiquan di Wang, Wu e Li sono tradotti e commentati quelli che in Cina sono tutt’oggi considerati i primi e più importanti manoscritti della storia del Taijiquan.

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