Nell’arco della vita ho avuto la possibilità di incontrare diversi Maestri, istruttori e insegnanti di molteplici discipline marziali di matrice cinese, giapponese, del sud est asiatico e occidentale.

Di tutte queste discipline ho però scelto di allineare la mia strada, in modo più profondo, con quella del Taijiquan; unica tra le tante arti marziali che è stata in grado di trasmettermi principi che vanno oltre il confronto fisico-mentale tipico dello sport, spingendomi così a fare un lavoro profondo e scardinante su chi sono nel bene e nel male. Con il passare del tempo questa però si è rivelata una convinzione figlia delle molteplici illusioni della vita. Oggi so che il percorso di crescita, e messa in discussione di sé stessi, nasce dentro di noi.

Pur essendo il Taichi un’arte interna straordinaria, uno di quei “più” che contengono anche il “meno”, è solo uno strumento – potente, ma comunque uno strumento e null’altro – il fine e lo spirito nascono e si evolvono nel praticante. Non è quindi un caso se conosco ottimi Maestri di Taichi che sembrano non aver mai lavorato sul proprio ego.

Il fiume cambia nome in base alla nazione che attraversa, ma sempre un fiume è e rimane. Inolte noi siamo liberi di chiamare “fiume” anche una lunga striscia di sabbia del deserto ma la sostanza primaria del fiume è l’acqua, mentre quella delle dune di sabbia è la roccia sedimentaria clastica sciolta e frammentata.


FALSE CREDENZE NEL TAIJIQUAN

Numero 1
“Esiste uno stile Α migliore e/o più corretto degli altri stili β, Γ…”

Questo è il primo falso mito del Taichi, figlio dell’ego di alcuni maestri, che hanno tramandano l’arte in questione.
A prescindere che sia stile Yang, Chen, Sun, Wu, Tung… ciclicamente appare qualche maestro che sottintende quanto il suo Taiji sia quello “vero”, mentre quello altrui è una falsa imitazione o deviazione dallo stile madre.
Questo dimostra, innanzi tutto, che una cosa è la via marziale (apprendere abilità, tecniche e principi combattivi) e un’altra cosa è la Via. Ergo: non tutti gli insegnanti abili marzialmente dagli “occhi a mandorla”, o di qualsiasi altra etnia o provenienza, corrispondo a essere anche dei “Guru” nella vita.

La mia esperienza, fatta con Maestri di Taichi (provenienti da vari lignaggi/stili in occidente come in oriente) mi porta a dire che esistono solo due “verita” nel definire il Taiji: “è vero” o “è falso”. Questo non ha però a che fare con uno stile, come alcuni vorrebbero far credere, bensì con i principi dell’arte. Se sussistono i principi allora è “vero” Taiji, viceversa sarà “falso” Taiji, indipendentemente dal lignaggio più o meno blasonato.

Numero 2
“Il Taiji è vero quando appare bello, armonioso ed elegante

Su questa affermazione si potrebbe aprire un discorso pericolosamente lungo, dato che dovremmo parlare dei significanti: “bellezza”, “eleganza” e “armonia”. Questi hanno tutti a che fare con infiniti fattori: culturali, temporali, utilitaristici, natuali, ecc.

Dinnanzi agli occhi di un neofita il Wushu da competizione in stile Taiji potrebbe risultare molto più “bello” rispetto al vero Taiji eseguito da un grande Maestro del passato. Già questo dimostrerebbe che quel che è “bello” non è detto che corrisponda a quel che è “vero”.

Per riconoscere la bellezza di una disciplina complessa, qual è il Taiji, bisogna prima di tutto essere in posesso delle chiavi (di base) utili ad aprire almeno le prime porte della comprensione di quest’arte interna. Per sua natura non giudicabile quando la si può solo osservare nella sua superficie.

La nota forma moderna 24 di wushu in stile taiji Yang potrebbe risultare “bella” se vista da un inesperto, pur essendo al contempo anche finta (falso Taiji). Ma in base a chi esegue la medesima forma 24, questa potrebbe essere: “brutta” ma vero Taiji o “bella” e vero Taiji.
Tutto dipende (come descritto nel falso mito numero 1) se la forma contiene, a prescindere da quale essa sia, determinati principi.

La sostanza ha sempre una forma, mentre la forma spesso può essere priva di sostanza.

Di recente ho sentito un noto maestro che sminuiva la forma 37 di Cheng Man Ching mettendola a confronto con la forma Yang “originale”. Successivamente ho rilevato come gli insegnamenti di questo maestro fossero i medesimi del Maestro Cheng Man Ching. Davvero ironico.
La differenza quindi, come ho cercato di spiegare sin qui, risiede nei principi e non sulla forma o lo stile praticato. Le “forme”, così come gli stili di famiglia del Taiji, sono semplicemente intelaiature che possono essere vuote (prive di insegmaneti utili alla comprensione del Taiji) o piene (contenenti tutti o molti principi corretti).

La sagoma esterna dell’involucro può essere di qualsiasi tipo, così come il nome che gli diamo. Quello che fa la differenza è sempre il contenuto.

Numero 3
“I miei insegnamenti sono unici, esclusivi e originali”

Pur non avendo contezza di quel che insegnano gli altri, alcuni maestri “dimenticano” (per non dire che sono arroganti e presuntuosi) che se i principi sono corretti il Taiji è sempre uguale.
Certamente quello che può cambiare è il “sapore” e il metodo che ognuno di noi svilluppa al fine di trasmettere agli altri la propria conocenza (…e in questo ci sono persone più abili e persone meno portate, è inevitabile). Ma questo non significa conoscere più o meno Taichi di altri insegnanti.

Un aspetto diverso invece è la “sensazione”. Ci sono maestri abilissimi nel far percepire la giusta sensazione riferita a un determinato principio, ma poi si rivelano incapaci nel passare quel principio agli alri. Mentre ci sono maestri che, al contrario, sono meno abili a far sentire le sensazioni agli altri attraverso il loro corpo, ma sono abilissimi a farle raggiungere agli altri tramite i loro insegnamenti.

Per mia esperienza credo sia utile imparare il Taiji da entrambe le tipologie di insegnanti: quelli che ti fanno sentire qual’è la sensazione da raggiungere e quelli che ti sanno spiegare come fare a raggiungerla.
Ovviamente ci sono anche (pocchissimi) Maestri in grado di fare entrambe le cose… e questi sono i Grandi Maestri della storia del Taiji.

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Numero 4
“Il vero taiji è quello che dimostra la sua invincibilità marziale”

Questa potrebbe sembrare la frase di una barzelleta, ma purtroppo in giro è pieno di gente che valuta la bravura di un insegnante di Taiji in base alla “forza marziale” che questo esprime. La cosa grave è che nell’ambito del Taijiquan molti confondono l’abilità nell’ambito del tui shou (esercizio di coppia più o meno collaborativo, utile a testare principi e strategie) con il combattere.

Il combattimento vero, non regolamentato e non rituale ha a che fare con tre cose: l’abitudine a combattere (esperienza maturata nel tempo), la stazza e l’età. Non è un caso se esistono nei combattimenti sportivi le categorie di peso e di età.
Inoltre qualsiasi bravo combattente sportivo sa bene che le due cose principali, che fanno la differenza quando si affronta qualcuno, sono: tempo e distanza. Caratteristiche che si sviluppano con la pratica e l’abitudine a confrontarsi con lottatori di qualsiasi arte marziale o “sulla strada”.

Il Taiji è una fenomenale arte marziale, ha delle peculiarità che nessun altro stile di combattimento possiede. Così come altri tipi di combattimento hanno peculiarità che il Taiji non possiede.

Quello che ha reso celebre il Taijiquan in ambito marziale è che questo affonda i suoi principi nella filosofia taoista e sul concetto molto ampio di YinYang.
Nonostante noi occidentali abbiamo ricamato sopra al Taiji (che è via del Tao) affascinanti romanzi e siamo stati ispirati sino a produrre film come Guerre Stellari, bisogna tornare alla realtà. Come disse Ma Yueliang, uno dei più grandi maestri di Taiji di tutti i tempi, in un’intervista video: “ho speso 10 anni per imparare il Taiji e poi ne ho impiegati altri 30 per capirne il vero scopo “.
Grazie a Maestri come Ma Yueliang oggi sappiamo che lo scopo ultimo del Taijiquan non è di tipo marziale ma bensì legato alla salute e all’innalzamento dello spirito. Così come sappiamo che in quanto arte marziale è sempre stata prettamente difensiva, utile a proteggere il proprio corpo dall’aggressione altrui.

© Valerio Bellone