Perché le gerarchie sono importanti
Le arti marziali non sono solo movimenti codificati o esercizi fisici: sono un sistema di trasmissione dell’esperienza. Alla base di questo sistema ci sono delle gerarchie. Non intese come strumenti di dominio, ma come strutture di rispetto e crescita. Tra le molte discipline che incarnano questa visione troviamo il Tai Chi, arte marziale interna cinese che unisce combattimento, meditazione e coltivazione dell’energia interna. La trasmissione nel Tai Chi – così come in molte scuole tradizionali – si fonda su un rispetto profondo del ruolo dell’insegnante e della linea di successione.
Quando queste gerarchie vengono ignorate o cancellate, non si ottiene uguaglianza, ma confusione e vuoto. Al contrario, riconoscerle e viverle con consapevolezza permette all’intero sistema marziale di nutrirsi e rigenerarsi. Le gerarchie sono un contenitore che permette all’acqua della conoscenza di assumere una forma e un ordine. Senza di esse, il sapere si disperde, si frantuma in mille rivoli senza direzione.
Una struttura gerarchica sana e consapevole non è uno strumento di oppressione, bensì un ecosistema relazionale dove ciascuno ha il proprio ruolo. Quando questo ruolo è riconosciuto e rispettato, il gruppo cresce insieme.
Nel libro I tre Classici del Taijiquan di Wang, Wu e Li sono tradotti e commentati quelli che in Cina sono tutt’oggi considerati i primi e più importanti manoscritti della storia del Taijiquan. La traduzione dei tre manuali originali è accompagnata da spiegazioni approfondite di ogni frase, da un punto di vista pratico, teorico e linguistico. Ogni passaggio del libro è inoltre supportato da un commentario nel quale vengono approfonditi anche gli aspetti di natura filosofica e storico culturale che sono indispensabili per una corretta comprensione della materia trattata.
I ruoli nella tradizione giapponese e i loro equivalenti cinesi
Il Sensei (先生)
Il termine giapponese Sensei significa letteralmente “colui che è nato prima”. Non è solo un insegnante: è un riferimento, una guida. In cinese il termine equivalente è Shīfu (師父 o 師傅), che unisce i concetti di “maestro” e di “padre”.
Il Sensei / Shīfu ha vissuto un’esperienza, l’ha interiorizzata, e la offre a chi è pronto a riceverla. Il rispetto verso questa figura non è un tributo all’autorità, ma un riconoscimento del valore dell’esperienza incarnata.
Essere Sensei non significa solo detenere la conoscenza tecnica, ma averla fusa con il proprio essere, in modo da trasmetterla senza bisogno di imporla. Il Sensei osserva e guida, corregge con misura, e rappresenta un punto di riferimento sia tecnico che etico. La sua presenza plasma il campo d’energia del luogo nel quale si riuniscono i praticanti della scuola marziale.
Il Sempai (先輩)
Il Sempai è l’allievo più esperto. Non è ancora un maestro, ma ha un ruolo fondamentale. Quando il Sensei insegna, il Sempai tace e ascolta con la stessa umiltà del principiante alle prime armi. La sua anzianità non gli dà diritto di correggere, ma di imparare ancora.
Quando si allena con un principiante (Kōhai), però, trasmette ciò che ha compreso. Il Sempai diventa allora ponte tra il Sensei e il nuovo allievo. Insegna con il corpo, con l’esempio, con la presenza. Nella tradizione cinese, questo ruolo è occupato dal Shīxiōng (fratello maggiore) o dalla Shījǐ (sorella maggiore).
Il Sempai mostra anche come ci si comporta verso il maestro, offrendo un esempio silenzioso ma potente. In questo senso, è il primo educatore del gruppo: il suo modo di salutare, di porsi, di ringraziare e anche di chiedere spiegazioni viene assorbito dai più giovani.
Essere Sempai è una responsabilità, non un privilegio. Implica la capacità di tenere insieme fermezza e gentilezza, aiutare senza umiliare, e soprattutto di ricordare costantemente che la propria esperienza è frutto del dono ricevuto da chi ha camminato prima.
Il Kōhai (後輩)
Il Kōhai è il praticante più giovane, o semplicemente con meno esperienza, il nuovo arrivato. Non è “inferiore” in alcun modo, ma è colui che riceve, che osserva, che deve ancora formarsi.
Il suo compito non è solo imparare le tecniche, ma anche assorbire lo spirito dell’ambiente, i gesti, i silenzi, le posture, i ritmi. È in questa apertura che cresce, grazie al maestro (Sensei) e al Sempai.
Nel mondo cinese, è il Shīdì (fratello minore) o la Shīmèi (sorella minore), della famiglia marziale. Il Kōhai non è spettatore passivo, ma seme che cresce nel campo del luogo di allenamento. Più si apre con umiltà e fiducia, più può assimilare in profondità.
La qualità del Kōhai non si misura solo nella velocità con cui apprende, ma nella sua attitudine interiore: gratitudine, ascolto, rispetto, volontà di crescere. In questo senso, il Kōhai è parte fondamentale della continuità dell’arte.
Non è formalismo, è sostanza
Molti osservatori esterni, o anche praticanti alle prime armi, tendono a vedere queste dinamiche come “tradizioni rigide” o “formalismi inutili”. Qualcosa di anacronistico. Ma questa visione è superficiale.
Queste gerarchie sono una struttura viva, che si costruisce giorno dopo giorno, pratica dopo pratica. Sono il modo in cui si tramanda non solo la tecnica, ma anche l’etica, la disciplina, la postura mentale e relazionale.
Quando il Kōhai saluta il Sempai, e il Sempai riconosce il proprio dovere verso il maestro, si crea un campo relazionale di rispetto. Un rispetto che non è passività, ma base per un apprendimento profondo.
Una gerarchia che genera rispetto, non paura
È importante distinguere: non si parla di gerarchie autoritarie o militari. Qui non c’è imposizione cieca, ma una forma di rispetto che nasce dal riconoscere il percorso dell’altro nella sua maggiore esperienza di ciò che si pratica.
Il Sensei ha tracciato sentieri che altri ancora devono esplorare. Il Sempai ha camminato prima. Il Kōhai è parte di questo flusso. E ognuno, in ogni momento, può essere contemporaneamente guida e allievo, a seconda della situazione. O, comunque, si tratta di un ciclo: Il Kōhai, sarà un Sempai e infine un Sensei che a sua volta guiderà nuovi Sempai e Kōhai.
La gerarchia autentica è flessibile come il bambù: si adatta, ma non si spezza. Non schiaccia, ma orienta. Non umilia, ma accompagna. In questo si distingue nettamente da ogni struttura piramidale di potere.
Chi invece tratta la gerarchia delle arti marziali tradizionali come una gerarchia militare, non ha capito nulla di questi sistemi antichi e profondi.
Gerarchie che nutrono la comunità
Questa struttura, se rispettata e vissuta pienamente, diventa un tessuto che unisce. Permette all’insegnamento di fluire con coerenza. Il principiante si sente accolto e guidato. L’esperto si sente responsabilizzato. Il maestro può trasmettere senza dispersione.
La distruzione delle gerarchie, al contrario, genera confusione. Tutti parlano, nessuno ascolta. Nessuno sa più a chi affidarsi, o da chi imparare. La scuola marziale e la comunità perdono il loro baricentro.
Nel tempo, questo porta a una perdita di qualità dell’insegnamento, a uno svuotamento del valore e alla trasformazione dell’arte marziale in semplice attività sportiva o ricreativa priva di reale valore pedagogico.
Vivere la gerarchia come via di crescita
Rispettare i ruoli non significa costruire barriere, ma aprirsi a un processo di trasformazione. Chi oggi è Kōhai, domani sarà Sempai. E se saprà mantenere umiltà, un giorno potrà diventare Sensei.
In questo cammino, ogni ruolo è un passaggio fondamentale, e ogni passaggio è un’occasione per crescere. Le gerarchie, così vissute, diventano una via che ha è persino vicina con quel che è spirituale, non solo marziale.
In fondo, vivere una gerarchia autentica è un esercizio di ascolto, di equilibrio, di presenza. Ed è questo l’insegnamento più profondo delle arti marziali: camminare insieme, riconoscendo il valore del percorso altrui, senza mai smettere di cercare il proprio passo.