taijiquan pacifismo natura inversa

Ho impiegato diversi anni a comprendere qualcosa che non fosse superficiale in merito al Taijiquan e nel momento in cui mi è stata più chiara la teoria ho capito che la mia pratica era errata e basata su false convinzioni e illusioni.
L’alto livello di questa materia non è per tutti, non è un caso se ogni cento anni è già da considerare un successo se una sola persona riesce a rendersi interprete pratico dell’alto livello teorico del Taijiquan.
Osservando con gli occhi di chi la teoria del Taijiquan non la comprende, se non a livello generico, è facile individuare persone estremamente abili a combattere in “modalità Taijiquan”. Chiunque sia capace di fare qualche fajin (emissione di forza interna), avendo raggiunto il livello dongjin (comprensione della forza interna) utile – tra le altre cose – al controllo dell’avversario, generalmente viene definito “capace” o “abile”. Ma quando si comprende la natura reale del Taijiquan allora ci si rende conto che sono davvero pochi quelli in grado di far proprio, a livello pratico, l’alto livello di questa materia.
Il Taijiquan di alto livello è così difficile da capire che il più delle volte viene frainteso, mescolato o ibridato con altre discipline e arti marziali. Perché accade?
La risposta è che il Taijiquan è una pratica di natura inversa. Questo significa che per capirlo bisogna azzerare tutto quello che si conosce o che si pensa di aver capito nel corso della vita. Uno scoglio non certo facile da superare. La presunzione, la convinzione del sapere e del fare non vanno per nulla d’accordo con la pratica del Taijiquan. E non basta certo dire a se stessi di “essere dei bicchieri vuoti” quando si inizia questa pratica. Se a muovere verso la pratica del Taijiquan è la superbia dell’ego che vuole accumulare conoscenza per i propri scopi, si è già impossibilitati a entrare nel percorso del Taijiquan. In tal senso la cosa più complessa è divenire consci di quello che si è attualmente, piuttosto che di quello che si pensa già di essere.
Ho conosciuto abilissimi artisti marziali che hanno praticato o che praticano e tutt’ora insegnano Taijiquan, eppure, da quando ho compreso meglio la teoria della materia, mi sono reso conto che non conosco ancora nessuno che effettivamente riesca a incarnarla al massimo livello.
Molti si convincono che il Taijiquan non è diverso da altre arti marziali e costoro sono quelli che vanno più fuori strada; altri intuiscono che il Taijiquan è diverso da altre discipline marziali ma non riuscendo a capire come trasformare il proprio essere finiscono per trovare soluzioni che sono tipiche di altri sistemi.

Qualsiasi sistema mai creato in ambito combattivo, a prescindere dal livello di lavoro interno/esterno che lo caratterizza, non si discosta dalla pratica della mente reattiva. Ovvero: per ogni stimolo c’è una reazione preordinata. Ogni arte marziale fondamentalmente lavora attraverso lo stesso sistema. Durante la crescita ci si libera gradualmente dalla reazione basica di “mossa e contromossa” e si giunge al livello nel quale si reagisce con istinto attraverso un corpo che è stato abituato, stimolato e condizionato per anni al combattimento. Qualsiasi arte marziale funziona così, in modo non diverso da qualsiasi sport fatto a livello professionistico. Una sola arte marziale fa eccezione, il Taijiquan.

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L’unica pratica che nel corso del tempo ho capito essere uguale all’essenza del Taijiquan è il pacifismo. Il pacifismo è una filosofia di vita che come il Taijiquan ha “natura inversa”, ovvero consiste in una coltivazione pratica che porta l’individuo al rifiuto totale del proprio istinto combattivo, spinge quindi alla non-violenza. Il pacifismo porta l’essere umano a fare qualcosa che risulta innaturale, ovvero non reagire con lotta violenta persino quando ci si trova innanzi a un atto di violenza. Il vero pacifista preferisce essere crocifisso piuttosto che vedere se stesso o gli altri combattere con violenza. Idea apparentemente facile da comprendere, dato che ci sono diversi personaggi storici che hanno dato tale esempio, ma quasi impossibile da mettere in pratica per le persone comuni vittime dei propri turbamenti. Non è un caso se i singoli individui che sono riusciti in questo intento nel corso della storia sono stati chiamati: buddha, divinità, illuminati, santi, figli di dio, creature di luce, uomini/donne di pace, ecc.
Anche nel corso della storia del Taijiquan diversi Grandi Maestri hanno tramandato l’idea che raggiungendo il più alto livello dell’arte si conquista una natura definita in vari modi bizzarri: eroica invincibilità; capacità divina; dimensione sovrannaturale; essere taiji; ecc.
Il problema di fondo è che il Taijiquan di alto livello è sempre stato proposto il più delle volte attraverso l’aspetto marziale. Per tale motivo la maggior parte dei praticanti, me compreso, si sono sempre focalizzati su quel che riguarda il combattere, convincendosi che appellativi come “eroica invincibilità” facciano riferimento ad abilità di così alto livello da rendere fisicamente invincibili. Nulla di più sciocco e illusorio.
L’alto livello del Taijiquan, almeno quello più facilmente raggiungibile, ovvero la parte teorica, si comprende attraverso uno studio minuzioso dei manuali storici del Taijiquan e di molti altri testi successivi, oltre ovviamente attraverso lo studio dei testi cardine del daoismo (Yijing, Daodejing, Zhuangzi e Liezi). Per comprendere profondamente questi testi è richiesta grande apertura mentale e sensibilità – frutto di una vasta gamma di esperienze e stimoli di vita – ed enorme capacità tanto di immedesimazione quanto di empatia. Ergo, è necessario un totale rispetto della vita altra, a prescindere dalla natura e dalla manifestazione della forma di vita innanzi alla quale ci si trova. Questo perché qualsiasi forma di vita ha la medesima fonte. Senza determinate capacità interiori il rischio è di leggere i testi citati in modo analitico, ovvero utile per i fini dell’ego che ha come scopo il dimostrare a se stesso, così come agli altri, di essere erudito.

Ad ogni modo, una volta compresi i messaggi insiti nei testi detti Classici del daoismo e quelli del Taijiquan si può giungere a una sola conclusione possibile, ovvero che nell’ambito dell’arte marziale dello yin-yang (il Taijiquan), combattere mentalmente, verbalmente e fisicamente con gli altri è qualcosa di contrario all’arte stessa. Ne consegue la domanda più ovvia: come può essere un’arte combattiva, non combattiva? La risposta non è certo semplice. Ad ogni modo il primo passo è quello di riconoscere i propri limiti, comprendendo di essere innanzi a qualcosa di talmente grande dall’essere “irraggiungibile”. Quando si inizia a pensare di avere capito il Taijiquan già si è smesso di comprenderlo. Essendo il Taijiquan (arte marziale – quan – della suprema polarità – taiji) una pratica che riguarda la fonte della vita, ovvero il movimento delle energie yin-yang che hanno creato ogni cosa, come si può pensare di poterlo capire? Noi stessi siamo emanazioni della fonte. Come può un’emanazione comprendere e spiegare la fonte? Trattasi di una presunzione che oggi lascio volentieri ad altri. E infatti, a livello pragmatico terreno, ho definito il Taijiquan, non casualmente, pratica di natura inversa, ovvero che va contro la natura ordinaria di quello che la natura umana riesce a comprendere.

Spiegare teoricamente come dovrebbe funzionare il Taijiquan a livello pratico è uno scopo troppo complesso per riassumerlo in un articolo, motivo per il quale rimando al mio libro intitolato “I Tre Classici del Taijiquan di Wang, Wu e Li”, ovvero la traduzione dal cinese con commentario in italiano dei più importanti manuali della storia del Taijiquan.
In questo articolo comunque può essere detto che il Taijiquan consiste nella resa, nel non avere alcuna premeditazione o intenzione. Esso è una spinta a divenire puro equilibrio yin-yang, essere in armonia, ovvero: “essere Taiji invece che essere umani”.
Seguire un “avversario” aderendo al suo intento, senza farsi investire da esso, è qualcosa che sembra impossibile quando si vuole mettere in atto la teoria del Taijiquan. Difatti solitamente i praticanti risolvono a livello pratico l’abilità “seguire aderendo” attraverso specifiche tecniche che sono utili al controllo dell’altro tramite una personale reazione che poco ha a che fare con le qualità vere del Taijiquan.
Una reazione, qualsiasi essa sia, di fatto già non è Taijiquan. Come per il pacifismo, per riuscire a entrare nell’idea del vero Taijiquan, bisogna prima uscire dall’idea di voler reagire, a prescindere dalla modalità e da cosa si sta subendo. Si deve abbandonare l’idea di volere fare qualcosa di attivo, diretto, in contrasto e contrario. Bisogna quindi essere dei “combattenti pacifisti” che è ovviamente un ossimoro utile, ancora una volta, a sottolineare la natura inversa del Taijiquan.

Certamente la spiegazione fatta sin qui non è esaustiva, ma forse dona una prima comprensione del perché durante la pratica del Taijiquan bisogna “investire nella sconfitta” (cit. Cheng Man Ching). Investire nella sconfitta significa rinunciare a qualsiasi idea di vittoria sull’altro.
Se la spinta alle arti marziali è il trovare metodi per vincere durante uno scontro, è certo che il Taijiquan non è la strada da percorrere. Infatti in questo caso il Taijiquan risulterebbe frustrante e incomprensibile, oppure verrebbe falsato attraverso soluzioni che non sono proprie dell’arte stessa.
Per intraprendere il percorso del Taijiquan, che porta “all’eroica invincibilità”, bisogna rinunciare a se stessi e donarsi agli altri. Bisogna essere quindi in pace, essere sereni, ovvero: felici. Non cercare null’altro che la serenità conseguente al distacco dal proprio ego.
Essere felice equivale a liberarsi dalla gabbia dell’ego, ovvero dal costante tentativo di riempire il vuoto interiore attraverso la realizzazione dei desideri. L’ego ha costantemente fame e il vuoto che crea non può essere colmato da ciò che è esterno a se stessi. Nessuna abilità o bene materiale infatti può appagare l’ego a lungo termine. Quindi si deve comprendere che non si ha alcun bisogno di essere il combattente più forte, un grande medico, lo sportivo vincente, il più bello, il più in vista, il più bravo, colui che ha più potere, più soldi, più seguaci, che fa carriera più velocemente e via dicendo. Tali obiettivi sono false mete e non donano nessuna vera felicità. La felicità risiede nella semplice serenità di colui che coltiva la pace interiore. Quando si riesce a trasmettere serenità alla propria famiglia e agli altri, quando si è sereni nel fare e si trasmette amore, si ha già vinto la più grande battaglia della vita. Quella con il proprio ego, che in questo contesto può essere immaginato come il complesso di istinti ancestrali.
Non serve quindi null’altro del distacco dall’ego. Questo porta a essere già un “Buddha”, ovvero un essere luminoso che illumina la via a coloro che non la vedono o che la percepiscono appena.
Donarsi agli altri, piuttosto che scontrarsi costantemente con la vita, è la Via. Se ognuno sapesse fare questo non esisterebbero guerre e sistemi di lotta utili a prevaricare gli altri. Ci sarebbe un’umanità che vivrebbe in un modo diverso da quello attuale fatto di accumulo, crescita e competizione. Si potrebbe vivere nel segno della natura di tutte le cose, tramite collaborazione, cura e aiuto reciproco.
Quando si giunge alla consapevolezza del fare-senza-fare (wu-wei-wu) e si impara a riconoscere lo scalpitio dell’ego che vuole combattere ed emergere attraverso diverse forme, si è già il Grande Maestro della propria vita, non si ha nulla da dover dimostrare a nessuno, nemmeno a se stessi.

Contrariamente a quanto per lungo tempo è stato insegnato e divulgato attraverso i mass media, la felicità non è una cosa da conquistare attraverso la competizione e lo scontro, non è un accumulo di beni, non è una scalata che deve portare in vetta, bensì è la capacità di dimorare nella pace durante il percorso. La felicità emerge dalle pieghe di ogni attimo in cui si ama il prossimo. Non bisogna farsi influenzare dalla superbia del “combattente” che gode nell’auto lodarsi e nel mostrare trofei e risultati conquistati con le unghie e con i denti. Costoro non sono felici, al contrario dimorano in una grande sofferenza interiore che offuscano con stratagemmi esterni. Sono semplici vittime, come chiunque altro.
Una volta un Buddha mi disse: “stai tranquillo fratello, sei nel normale circolo della sofferenza, continua il tuo cammino cercando la serenità”.
Quando si impara a riconoscere il proprio ego, si è in grado di vedere quello altrui. Quando si riesce a rispondere all’aggressione del proprio e altrui ego con il cuore, con amore, si ha già “capacità divine” e si può mostrare agli altri la Via della “eroica invincibilità”, che equivale a essere portatori di pace, senza necessità di gloria.

© Valerio Bellone


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2. Cosa è il Taijiquan? Scopriamolo grazie al Classico di Wang
3. Investire sulla sconfitta, la Via del Taijiquan
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