Il Tai Chi, nella maggior parte dei casi, viene ancora presentato e trasmesso come arte marziale, rispettandone l’origine. Ma può davvero ancora essere considerato tale?

A mio avviso, no.

Un’arte marziale — soprattutto alla luce dell’evoluzione che ha avuto nel tempo, anche grazie al contributo degli sport da combattimento — non può prescindere da una struttura di pratica che comprenda diversi elementi fondamentali. Tra questi:

  1. Condizionamento corporeo funzionale.
  2. Allenamento al contatto con l’avversario.
  3. Sparring, ovvero combattimento di intensità media e controllato con un compagno abituale e con praticanti di altre scuole, per confrontarsi in modo più realistico prima di un eventuale combattimento vero.
  4. Incontri sportivi competitivi, all’interno di un ambiente regolamentato in cui ogni praticante può esprimere il proprio stile.
  5. Studio delle armi, che come per il lavoro a mani nude dovrebbe includere sparring e combattimenti sportivi armati.

Se questi elementi sono presenti, si può parlare con coerenza di un’arte marziale.

Molti giovani di oggi credono che questo tipo di struttura sia una prerogativa moderna, introdotta dagli sport da combattimento contemporanei. Ma non è così. Anche centinaia di anni fa, i praticanti delle arti marziali che oggi definiamo “tradizionali” seguivano un percorso molto simile. Magari con meno consapevolezza scientifica del corpo umano e con metodi diversi, ma con un’attenzione e un rigore che miravano allo stesso obiettivo: prepararsi al combattimento che in quel caso era spesso preparazione alla guerra e non al “semplice” ring.

Il Tai Chi oggi: dov’è finita la marzialità?

Questa impostazione è ancora presente nel Tai Chi di oggi?

Nel corso degli anni ho visitato molte scuole, incontrando numerosi insegnanti. Ogni scuola aveva le sue peculiarità, ognuna concentrata su aspetti differenti. Ho sperimentato di tutto: dai “prestigiatori” della biomeccanica che parlano di qualità del Tai Chi — per lo più influencer travestiti da insegnanti, che dedicano più tempo ai social, a workshop sporadici e a fare pubblicità ai propri video corsi a pagamento, che non ai propri allievi — a chi riduce il Tai Chi a un insieme di tecniche pseudo-marziali estratte dalle Forme (in cinese Taolu, 套路, sequenze lente di movimenti codificati e concatenati).

Inoltre, tra questi due estremi, si collocano poi coloro che hanno completamente dimenticato l’origine marziale del Tai Chi, trasformandolo in una sorta di ginnastica sportiva coreografica dalle movenze “marziali” (a partire dal 1950 circa), oppure in una forma di meditazione in movimento o di Qi Gong avanzato.

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Quindi, oggi, che cos’è il Tai Chi?

Paradossalmente, è tutto ciò che ho appena elencato. Ma di certo non è più un’arte marziale, né nel senso originale né in quello contemporaneo.

Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, il Tai Chi oggi promosso come “marziale” è spesso solo un gioco per nerd che non vogliono sporcarsi le mani con una marzialità reale. Una marzialità che, per sua natura, comporta un rischio fisico reale: lesioni, fratture, tagli, e in certi casi anche danni permanenti o, persino, la morte.

Lo dico per esperienza personale: ho frequentato ambienti dove la marzialità era vissuta in modo autentico, eppure me ne sono tirato sempre fuori, perché il mio obiettivo non era diventare un combattente, ma evolvere. Spiritualmente, intellettualmente e fisicamente — in una direzione più sottile. Non volevo finire intrappolato in una dimensione di conflitto, né con gli altri né con me stesso. Inoltre, mi ha lasciato sempre un enorme senso di sconforto interiore aver fatto male a qualcun altro anche solo per sport. Ero molto più sconfortato dal fare male che non dal farmi male.

Chi pratica marzialità vera può certamente intraprendere un percorso di evoluzione profonda, ma il professionismo marziale, che oggi troviamo per lo più nello sport da combattimento (soprattutto quello di oggi legato ai social media e al denaro), tende a legarti alla logica della risoluzione attraverso il conflitto. Io, invece, cercavo una strada diversa. Puoi leggere qui parte del mio percorso come praticante e insegnante di Tai Chi a Palermo.

Le tecniche nel Tai Chi: vere o finte?

Prima ho affermato che le tecniche nel Tai Chi odierno sono pseudo-marziali. Perché?

In realtà, quelle tecniche, estratte dalle Forme, sono fondamentali: servono a comprendere le otto qualità di base del Taijiquan (Peng, Lu, Ji, An, Cai, Lie, Zhou, Kao). Difatti, non si può lavorare sull’essenza se non si è passati per la funzione, secondo il principio cinese di Ti e Yong. Quindi, nonostante le critiche che alcuni influencer del mainstream fanno nei confronti dei sistemi basati sulle tecniche, queste tecniche sono importantissime, soprattutto per i principianti. Ma, a quanto pare, a determinati influencer del Tai Chi fa comodo lasciare gli allievi all’oscuro delle qualità, per mantenere una posizione di superiorità. A tal scopo dicono di spiegare le qualità senza necessità di passare dalle tecniche. Un’ottima strategia di marketing, forse, ma molto distante dal vero insegnamento.

Eppure, se le tecniche sono così importanti, perché le definisco “finte”?

Per il semplice fatto che non vengono più messe alla prova in ambiti conflittuali reali. Oggi, nella quasi totalità dei casi delle scuole di Tai Chi, non c’è sparring (combattimento controllato), non ci sono confronti con altri stili di combattimento. Non c’è verifica concreta della funzionalità di quelle tecniche. Così facendo, le tecniche (così come i giochetti qualitativi, i trucchi biomeccanici) diventano un gioco, un esercizio per appassionati da sala che, senza reale efficacia marziale, giocano a spostarsi vicendevolmente. Indubbiamente un gioco che può essere divertente quando tecnico di attacco/difesa e uno splendido modo di mettere in relazione profonda due compagni di allenamento quando si lavora sulla sensibilità del contatto, ma, in ogni caso, nulla di marziale a conti fatti.

Quindi sì: spesso si lavora su tecniche, ma senza mai farle diventare vere applicazioni funzionali da un punto di vista realistico. E senza applicazione, è quantomeno difficile che si possa arrivare all’essenza dell’arte e alle qualità più sottili. Perché la via che porta alla qualità — all’arte stessa — passa inevitabilmente dalla funzione. E, se un principiante non ha tecniche (veicoli) di esplorazione dell’essenza (le qualità), è molto difficile che giunga alle qualità in tempi brevi.

In ogni caso, nell’ambito marziale, il passaggio da tecnico ad artista è possibile solo se ciò che si studia viene realmente esperito nel confronto.

Il Tai Chi è stato demarzializzato ma può dare ancora un grande contributo agli artisti marziali

Sì, posso dirlo chiaramente: il Tai Chi è stato di fatto demarzializzato.

E allora la domanda che sorge spontanea è: perché mai continuare a praticare un’arte marziale che non è più marziale?

Ecco il paradosso. Uno dei motivi per cui vale ancora la pena praticarlo — il primo che voglio evidenziare — è proprio di tipo marziale. Sembra un discorso assurdo, non è vero?

Pur avendo perso la sua funzione primaria come sistema di combattimento, il Tai Chi conserva comunque alcune caratteristiche uniche che possono arricchire il percorso di qualsiasi artista marziale.

Le due principali potenzialità marziali del Tai Chi sono in particolare:

Il “radicamento” basato sul concetto Song – che migliora la stabilità nelle proiezioni dell’avversario (e nel rendere più difficile all’altro farci cadere – proiettarci a terra); la potenza nei colpi; la connessione tra corpo (il proprio e dell’altro) e il terreno; la struttura corporea che pone le basi per lo sviluppo delle qualità del Taijiquan.

La sensibilità percettiva – quella capacità raffinata di ascoltare, assorbire, neutralizzare e redirezionare la forza altrui. In altre parole: Ting Jin, Hua Jin, Na Jin, Fa Jin (in merito puoi anche leggere: Le 5 qualità del Taijiquan, dall’adesione all’emissione)

Queste abilità sono raramente sviluppate in modo profondo come nel Taijiquan. E chi padroneggia tali abilità, può diventare un praticante marziale molto più efficace, a prescindere dal suo stile di partenza.

Inoltre, il Tai Chi offre un percorso di crescita interiore, di esplorazione del corpo e della mente, che va ben oltre la dimensione marziale stessa. Ma questo è un altro tema che viene affrontato in seguito.

Il ruolo del tecnico: dietro le quinte della marzialità

Insegno le abilità marziali appena citate presso Taii Gate, scuola di Tai Chi e Qi Gong. Il mio ruolo è aiutare a far emergere o approfondire specifici aspetti, sia in chi — giovane o meno — persegue un autentico cammino marziale con l’obiettivo di diventare combattente, sia in chi si avvicina alle arti tradizionali psicofisiche con passione e spirito di ricerca.

Ogni combattente ha bisogno di una cassetta degli attrezzi ben fornita. In quanto tecnico del Tai Chi, posso contribuire allo sviluppo di quelle abilità che affinano la marzialità di chi la coltiva come scopo principale.

Non sono un combattente, né un artista marziale in senso stretto, ma — come ogni tecnico e insegnante — posso accompagnare altri nel rendere più funzionale la propria marzialità, quando questa rappresenta la loro vocazione.

Come ripeto spesso, un atleta iconico, sebbene umanamente controverso, come Mike Tyson non sarebbe mai esistito senza l’appoggio di tecnici di altissimo livello. Eppure, i suoi insegnanti non erano combattenti.
Questo ci fa capire che la strada del preparatore tecnico e quella del combattente sono diverse ma strettamente legate:

  • Il preparatore è votato a far emergere le qualità negli altri: si dedica agli altri.
  • Il combattente, invece, si dedica a sé stesso, cercando di diventare l’interprete riconosciuto della propria arte.

Potremmo dire che il primo lavora dietro le quinte, mentre l’altro desidera salire sul palcoscenico (il ring).
Il preparatore si evolve osservando, studiando, indagando, facendo un lavoro sottile anche su sé stesso attraverso la formazione dell’altro; il combattente percorre una strada simile, ma lo fa sperimentando direttamente con il corpo, il dolore, la fatica, la vittoria — e con tutte quelle emozioni intense e contrastanti tipicamente umane.

Il primo evita il conflitto diretto, non ne sente il bisogno; il secondo ha bisogno di attraversarlo, più e più volte.
Il primo può scoprire, o sapere in partenza, che il conflitto non è affatto necessario (anche perché il conflitto si esprime in diversi modi e fasi della vita, non è necessario necessariamente il combattimento per comprendere il conflitto in sé); il secondo, il combattente, pur immergendosi in esso di continuo, spesso non riesce mai a trascenderlo, e talvolta rimane vittima del ciclo della sofferenza.

Oltre il combattimento: Tai Chi, Qi Gong e meditazione

All’inizio di questo articolo ho citato gli altri mondi che nel Tai Chi si sono aperti nel corso del tempo grazie al contributo di personalità provenienti da diversi contesti culturali, in particolare mi preme sottolineare:

Il secondo tipo di ricerca, ovvero la meditazione in movimento, può essere sia autosufficiente — per scopi di base come il rilassamento e la centratura psicofisica — sia affiancata da pratiche complementari, come la contemplazione, la meditazione seduta e l’indagine filosofica o scientifica, critica e autocritica, con l’obiettivo di espandere la coscienza.

L’obiettivo? Liberarsi da preconcetti, certezze e illusioni, per giungere a ciò che viene chiamato “risveglio”, “illuminazione” o, come dicevano i Daoisti, “unione con il Dao”.

Anche alcuni scienziati — come il celebre Albert Einstein — hanno cercato questo stato, seppur con altri nomi. In una lettera a Robert Marcus (2 febbraio 1950), Einstein scrisse:
«Un essere umano è parte di quel tutto che chiamiamo “universo”, una parte limitata nel tempo e nello spazio. Percepisce sé stesso, i propri pensieri e sentimenti come qualcosa di separato dal resto, in una specie di illusione ottica della propria coscienza».

In altre parole, disse ciò che ogni illuminato di ogni epoca ha espresso — o tenuto per sé — con parole semplicemente diverse. Le parole cambiano con il tempo e con il contesto comunicativo, ma la fonte a cui attinge una coscienza espansa è sempre la stessa. Che vi si giunga attraverso la scienza o la spiritualità, poco importa: ciò che conta è il risveglio.

Il Tai Chi oggi: arte marziale o via di trasformazione?

Dal mio punto di osservazione, questi percorsi rappresentano oggi la parte più interessante della disciplina ormai nota come Tai Chi, che spesso non viene più chiamata “Tai Chi Chuan”. La rimozione del termine Chuan — che indicava la componente marziale — non è più solo un’abbreviazione, come accadeva (e accade) comunemente in Cina, ma segnala un cambiamento più profondo: l’allontanamento dalla marzialità e l’emergere di un sentiero differente.

Un sentiero che resta comunque fondato sul principio base del Tai Chi: la comprensione e l’incarnazione dello Yin-Yang. Un principio che non ha bisogno di esprimersi in forma marziale per essere pienamente vissuto.

La marzialità, in questa prospettiva, è soltanto una delle molteplici manifestazioni del tutto — non l’unica via, né necessariamente quella che conduce più lontano. Al contrario, può certamente aprire alcune porte in modo rapido e concreto, ma se perseguita in modo egocentrico rischia di limitare il percorso evolutivo, mantenendo l’ego ancorato alla dimensione del conflitto.

Questo Tai Chi “trasformato” verso una dimensione meditativa non è né migliore né peggiore rispetto a un sistema marziale puro: è semplicemente lo stesso strumento al quale si da una funzione diversa.

Distinguere per comprendere: marzialità, Qi Gong, meditazione

Durante i miei corsi di Tai Chi a Palermo, che faccio anche con il corso di Tai Chi online in presenza e i corsi istruttore di Tai Chi e Qi Gong, ci tengo molto a sottolineare le differenze di ricerca quando si pratica.

Se si parla di marzialità, bisogna aderire e rimanere realistici a quel contesto. Se si parla di Qi Gong, il tipo di ricerca cambia. E così se si parla di meditazione. Mescolare in un unico pastone questi tre aspetti è improduttivo per tutti e tre. Ma passare, evolvendo, da un aspetto all’altro, senza mescolarli, può essere il processo naturale che quest’arte — così complessa — spinge a fare.

In tal senso, studiare e comprendere anche la storia e l’evoluzione di un’arte pratica serve a fare chiarezza dentro sé stessi su cosa interessa e dove si vuole andare osservando chi ci ha preceduto e i percorsi che ci hanno preceduto. La storia non è mai un argomento noioso fine a sé stesso.

Un libro per approfondire: i Tre Classici del Tai Chi

Per chi è interessato alla storia, alla filosofia, e alla componente marziale teorica e pratica del Tai Chi, qualche anno fa ho pubblicato un libro, in italiano e in inglese, che rappresenta una traduzione e spiegazione amplia dei primi tre Classici più importanti del Tai Chi Chuan in Cina: i Classici di Wang, Wu e Li.

Il libro, “I Tre Classici del Taijiquan di Wang, Wu e Li”, è il primo e unico testo dettagliato e completo sulle prime tre fonti scritte primarie cinesi. Se sei all’inizio del tuo percorso o stai già approfondendo quest’arte, ti consiglio vivamente la lettura.

Written by

Valerio Bellone

Valerio Bellone è un ricercatore e praticante di lunga data nel campo del Taichi Chuan, del Qi Gong e della Meditazione. È autore del primo e unico saggio in italiano dedicato ai tre Classici del Taijiquan, un’opera fondamentale per gli appassionati della disciplina.
Il suo percorso ha inizio nel wushu moderno, per poi approdare alla tradizione autentica del Taijiquan. Ha studiato lo stile di Cheng Man Ching e successivamente l'originale stile Yang della famiglia, approfondendo gli aspetti teorici e pratici di questa antica arte.
Oggi insegna regolarmente Taichi, Qi Gong e Meditazione a Palermo e divulga con passione questi argomenti attraverso articoli e pubblicazioni specialistiche.
In passato è stato un fotografo di viaggio, raccontando il mondo attraverso il suo obiettivo. Scopri di più sul suo lavoro fotografico visitando il sito valeriobellone.com.