difendersi da ansia e paure

“Dicono che prima di entrare in mare il fiume trema di paura.
A guardare indietro tutto il cammino che ha percorso, dalle cime delle montagne, lungo il tortuoso cammino che ha aperto attraverso giungle e villaggi, infine vede di fronte a sé un oceano così grande nel quale una volta entrato sparirà per sempre.
Ma non c’è altro modo. Il fiume non può tornare indietro. Nessuno può tornare indietro.
Tornare indietro è impossibile nell’esistenza.
Il fiume deve accettare la sua natura e entrare nell’oceano.
Solo entrando nell’oceano la paura diminuirà, perché solo allora il fiume saprà che non si tratta di scomparire nell’oceano ma di diventare oceano”.

~ Khalil Gibran ~

Le parole di Khalil Gibran sono quelle di una persona che dentro sé aveva trasformato la paura della morte in accettazione della stessa.

La scienza fallibile non combatte la paura della morte

Se dovessimo limitare la nostra esistenza alle idee provenienti dalla scienza contemporanea, figlia della tecnica, dei macchinari e di calcolatori, sarebbe impossibile accettare la morte, dato che significherebbe accettare l’idea del nulla dopo la vita. Ma il nulla è qualcosa di non contemplabile per noi viventi, che percepiamo, non a torto, che il nulla non esiste.

I macchinari da noi realizzati, utili all’indagine, sono un potenziamento e un’estensione dei nostri sensi primari, ovvero i 5 sensi legati alla nostra sopravvivenza, ormai usati per lo più al fine di categorizzare il mondo intorno a noi, più che a scoprirlo. Se da un lato siamo grati alla scienza e dalle possibilità di indagine che questa ha donato all’umanità, bisogna rimanere coscienti che le macchine e i computer da noi creati non possono certo sostituirci.
Quale macchina del nostro tempo potrebbe analizzare il livello di amore provato da un essere umano? Anche perchè, è forse questo quantificabile in modo oggettivo? Ed esiste un sistema scientifico per quantificare o dimostrare l’esistenza del dolore di una persona che subisce un lutto?

Pur non esistendo sistemi scientifici che possano spiegare l’origine dei sentimenti, nessuno di noi mette in dubbio l’amore o il dolore. Eppure viviamo un momento storico nel quale tendiamo a dare completa fiducia al modello tecnico scientifico, che però per sua natura è fallibile, dato che procede per tentativi basati su teorie.

Nessuna persona intelligente demonizza la scienza, ma nemmeno la idolatra.

Sulla base delle osservazioni appena fatte, probabilmente è errato mettere in dubbio il fatto che alcune persone, attraverso diversi tipi di pratiche, sono in grado di percepire un “mondo” non visibile, tangibile o udibile. Però, comunemente, si tende a dileggiare chi dice di percepire altre “energie”, solo perché queste non fanno parte delle “cose scientifiche”.
Eppure, molte delle pratiche provenienti dal passato e da altre culture, procedono in modo molto simile alla scienza moderna: teoria (studio dell’esperienza di chi ci ha preceduto), test (la pratica), verifica (analisi razionale del percepito) e validazione (costanza nella pratica e test ripetuti nel tempo, in dimensioni diverse, atti a provare o confutare determinate sensazioni, percezioni e consapevolezze). Qualsiasi studioso serio di qualsiasi materia procede in questo modo.

Se non avessimo ricevuto amore dai nostri genitori e non fossimo in grado a nostra volta di coltivare e nutrire questo sentimento per altre persone, diremmo che l’amore non esiste. Ma il fatto che qualcosa non esiste per noi, non dimostra in alcun modo che non esista in assoluto. Significa solo che non conoscendo una determinata cosa non siamo in grado di riconoscerla come reale.

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Se ci avvalessimo di una macchina dotata di IA paragonabile all’intelligenza umana (attualmente non esiste nulla del genere), questa ci direbbe che l’amore non esiste, che è solo un’allucinazione di massa, dato che i sentimenti non sono verificabili e misurabili empiricamente con uno strumento tecnico scientifico. Nella migliore delle ipotesi le macchine possono parlarci dell’amore come un’attività cerebrale che muove flussi di sangue in alcune aree (come scritto in questo articolo) o a livello molecolare (come in quest’altro articolo). Tutte queste spiegazioni, figlie della cultura scientifica del “sezionare al fine di capire”, provano a dire cosa accade quando amiamo, con la pretesa di dire quindi cosa è l’amore, peccato che in questo tipo di ricerche sfugge il tema centrale che è: perchè amiamo?
È simile a quello che sappiamo sulla forza di gravità, scientificamente parlando. Sappiamo che esiste, sappiamo descriverla e quindi pretendiamo di sapere cosa è. Eppure ancora nessuno scienziato ha saputo dire e dimostrare perchè esiste questa forza. La conoscenza che chiamiamo scienza è in grado di dimostrare gli attribbuti di alcune determinate realtà, non di dare motivazioni sulla loro esistenza. E di altre determinate realtà non e nemmeno in grado di dimostrarne gli attributi. Quando la situazione è questa alcuni “scienziati” cercano di liquidare quel che non conoscono come “inesistente” ovvero non dimostrabile in laboratorio.

Possiamo dire con certezza quanto la scienza sia utile, ma al contempo dovremmo prendere atto che questa non è in grado di spiegare ogni cosa. Ma se questa diventa l’unico modello di pensiero accettabile, al punto che qualsiasi cosa fuori dal modello viene classificato come deprecabile, censurabile o semplicemente  uorviante, significa che stiamo perdendo una fetta del nostro essere umani. E stiamo facendo con la scienza quel che in alcuni momenti storici del passato è stato fatto anche con alcune religioni.

Fortunatamente come collettività globale tendiamo a conservare la nostra umanità non affidando tutto alla scienza, alle macchine e ai computer. Almeno i nostri sentimenti sembra che cerchiamo di tenerli al riparo.

Alcune pratiche di consapevolezza utili

Sino ad ora ho parlato dell’amore dato che è un sentimento globalmente riconosciuto come reale da ogni individuo, qualcosa che quasi tutti riescono a percepire almeno una volta nella vita, anche i meno fortunati.

Questo è un buon punto di partenza, utile a comprendere che ci sono altre cose, oltre i sentimenti, che possono essere ascoltate e con le quali entrare in comunicazione ma che non fanno parte del mondo materiale. Ma, esattamente come per il sentimento dell’amore, vanno coltivate, viceversa rimangono prive di significato.

I modi di percepire “altro” sono molti, sviluppatisi nel corso della nostra storia umana. Alcuni di questi sistemi sono ancora vivi e presenti ai giorni nostri, come la meditazione e la contemplazione profonda, il Taichi (a determinati livelli di pratica), la preghiera, il lavoro con la consapevolezza, ecc.

Quello che tutti questi sistemi hanno in comune è trasportarci, tra le altre cose, nel mondo dell’accettazione della morte, che è la più grande angoscia umana di sempre. O almeno da quando abbiamo iniziato a renderci conto che la morte del corpo è una verità ineluttabile.
Nella nostra società proviamo a stigmatizzare la morte in centinaia di modi, ma la maggior parte di queste strategie sono utili a evitare di pensare alla morte stessa. Non voglio dire cosa sia la morte, perchè questa verità ultima può averla solo chi è già morto, ma in ogni caso posso dire che attraverso la mia pratica sono giunto alla stessa conclusione scritta nei versi di Khalil Gibran, citati all’inizio di questo scritto.

Giungere a tale conclusione attraverso una pratica è diverso dal fare proprie le parole scritte da altri. Questo perchè, sebbene la parola possa essere molto incisiva e profonda rimane un lavoro intellettuale. Mentre determinate pratiche fanno percepire le cose ad altri livelli.

Tornando all’esempio dell’amore tutti siamo in grado di capire che le parole sull’amore scritte in un romanzo possono essere eccitanti, commoventi o possono persino spingere, in determinate condizioni e momenti storici, a modificare i comportamenti collettivi all’interno di un contesto culturale. Questo amore però è quello legato all’intelletto, alla cultura dell’amore e dei comportamenti giusti e sbagliati da assumere in un contesto collettivo che mira al rispetto e all’armonia tra i vari individui. Ma cosa accade se l’amore del quale si parla è quello personale intimo e non il condizionamento indotto culturalmente?
Quando si entra nella sfera dell’amore come sentimento personale siamo in grado di riconoscerlo in un testo scritto solo perchè lo abbiamo già vissuto, viceversa non saremmo in grado di percepire nel profondo quel che stiamo leggendo. In ogni caso la parola scritta rimane un’apertura e un’indicazione anche quando si parla di cose complesse come i sentimenti umani o di cose persino più complesse come il “divino”.
Credo che comunque si può essere tutti d’accordo sul fatto che se dovessimo proprio scegliere, sarebbe più interessante sperimentare l’amore personalmente, piuttosto di farcelo raccontare dagli altri.

Lo stesso vale, per esempio, durante la mia pratica del Taichi, della quale dico: studiare i testi utili a capire la dimensione culturale e filosofica, cardine di quest’arte (come per esempio l’I Ching, il Tao Te Ching o il Zhuang Zi) è vitale, perchè questi sono la guida, l’indicazione corretta sul percorso da seguire. Ma senza la pratica, questi rimangono a un livello meramente intellettuale e hanno quindi un potere limitato nell’essere incisivi sulla propria esistenza.

Per accettare la morte senza angoscia – e tutta la gamma di manifestazioni che ne derivano – bisogna lavorare a dei livelli che vanno oltre la superficie. Per percepire qualcosa di più profondo riguardo al passaggio tra la vita alla morte, torno a dire che bisogna praticare. La scelta della pratica è personale dato che ognuno di noi risuona meglio con dei sistemi piuttosto che con altri. Ma l’importante, a prescindere dal sistema, è la costanza. Visto che le pratiche alle quali faccio riferimento non sono legate a metodi empirici validati da un computer e da una comunità scientifico tecnica, l’unico modo per addentrarsi in esse è di avere inizialmente “fede”. Ovvero credere che quel che si sta praticando possa portare in alcune stanze dell’esistenza ancora inesplorate. Serve pazienza e costanza.

La “fede” è il seme, la pratica con costanza crea le radici e la ricerca fa crescere l’albero, che nel tempo diviene interconnesso con il tutto.

~ V.B. ~

La mia esperienza con il Taichi

Personalmente in passato ho vissuto un momento della vita nella quale ho avuto paura della morte a livelli che mi spingevano a provare un’angoscia profonda. Successivamente ho incontrato il Taichi che iniziai come pratica legata alla marzialità, un percorso che sin da bambino mi aveva appassionato.
Attraverso la pratica del Taichi, che insegno nei miei corsi in Italia, ho scoperto che quest’arte conteneva molto più di un metodo di scontro alternativo, diverso da quello fatto da riflessi, velocità e forza fisica. Infatti, grazie al Taichi, sono entrato in un percorso che mi ha portato a un livello altro della materia trattata inizialmente, più vicino alla filosofia definita taoista. Ovvero alla pratica e alla coltivazione del Taiji, inteso come Dao.
Attraverso la mia pratica, nel corso del tempo, ho percepito la morte come passaggio e trasformazione. Però, come già ribadito più volte in questa riflessione, è praticamente impossibile far passare un sentire, dato dalla pratica, attraverso delle parole scritte. Quindi il mio invito rimane quello di praticare qualsiasi cosa possa avvicinare realmente a determinate consapevolezze.

Covid 19, società nel panico, ansia e paura della morte

In questo momento storico sta emergendo, grazie alla pandemia del covid, quanto gli individui all’interno della società globale non siano minimamente pronti ad affrontare la tematica della morte, pur essendo questa il cardine della nostra stessa esistenza insieme alla nascita e la vita.
Con il passare del tempo abbiamo inventato decine di strategie per evitare di parlare della morte, fino a far finta che questa non esista affatto. Prima del covid-19 ci accorgevamo della morte soltanto quando un caro veniva a mancare e negli ultimi decenni abbiamo persino bandito il lutto dalla nostra esistenza, riducendolo a qualcosa da dimenticare il più velocemente possibile.

Questa pandemia mette in luce quanto mediamente le persone non affrontino costruttivamente dentro sé stesse il tema della morte nel corso della vita. Questo fa vivere in una condizione esistenziale terrorizzata, perchè quando si manifesta la possibilità che la morte si avvicini per qualche motivo, persino il sistema (inteso come società) va nel panico.

Una società pronta ad accettare la morte – composta da singoli individui consapevoli – è un tipo di organizzazione in grado di reagire in modo adeguato quando si presenta un problema come la diffusione di un virus, anziché far precipitare tutto in una caoitca disorganizzazione, del “si salvi chi può, ognuno a modo suo”.

Al contempo capisco che c’è anche il tentativo di innestare paura nella massa così che sia più facile contollarla attraverso sistemi camuffati come “protettivi”. Quando una persona è atterrita si affida alla soluzione più rassicurante, ma questa non è sempre la migliore soluzione possibile.
Oggi non ci si deve stupire se è aumentato il livello di diffidenza nei confronti delle istituzioni, dato che queste sono palesemente sotto il controllo dell’economia globalizzata. Sono ormai lontani i tempi nei quali si sognavano governi guidati dalla saggezza e dal grande senso del bene comune.
Indipendentemente dal fatto che ci si senta di far parte della categoria di quelli nel “giusto”, se l’esempio di chi governa è stato pessimo per decenni, non ci si può aspettare che il comportamento individuale dei singoli componenti di una società sia sempre volto al bene (e benessere) comune.

Forse la scienza inizia a guardare oltre?

La scienza inizia a comprendere, dopo un anno dall’inizio della pandemia, che non è detto che sia il covid19 a uccidere le persone (come descritto in questo articolo del National Geographic), ma bensì la nostra risposta immunitaria squilibrata, chiamata “tempesta infiammatoria” o “tempesta citochinica”. Questo significa, spiegato con parole comprensibili, che è come se il nostro sistema immunitario lanciasse delle testate atomiche contro un’invasione di formiche. Il risultato è che il nostro organismo stesso viene distrutto dall’interno. Questo per me è molto interessante, dato che uno dei lavori interni del Taichi è proprio quello di regolare i livelli infiammatori nel corpo, mantenendo il tutto in una dimensione di equilibrio tra due elementi archetipi che sono “acqua” e “fuoco”.
In termini Taichi: spesso ci ammaliamo incontrando un virus (vale anche per la comune influenza) perchè il nostro organismo è sbilanciato, ovvero vive uno squilibrio interno che può degenerare sino creare distruzione (morte).
Di recente spiegavo a un caro amico come l’accumulo del Qi (energia vitale) non è necessariamene qualcosa di positivo, se questo diviene eccessivo. Già alcuni grandi Maestri di Qi Gong del passato avevano messo in guardia dal non esagerare nell’accumulare quel che apparentemente sembrerebbe essere una cosa esclusivamente sana. Ovvero “il troppo stroppia” citando l’articolo del National Geographic.
Fa piacere che la scienza moderna si sia inconsapevolmente avvicinata a quel che era già stato individuato in un’altro tipo di scienza molto più antica, basata sui sitemi di pratica di auto-cura (intesa come prevenzione) e ascolto.

Affrontare la vita in modo positivo e costruttivo

Il praticante avanzato di Taichi sa che tutto è governato da una mente (cuore) calma, rilassata, in equilibrio. Se la mente è incapace di essere in equilibrio il corpo seguirà questa disfunzione. Significa che se la nostra mente cosciente non accetta l’idea che un virus possa divenire un ospite momentaneo e inizia a credere che nell’aria ci sia un killer pronto a distruggere tutto, metterà in campo le armi più ditruttive delle quali è dotato l’organismo. Ergo, avere paura del virus a livelli paranoici, è il primo passo per non aiutare il proprio organismo a reagire nel modo corretto.

Molto spesso però le paure non sono manifeste. Potremmo essere convinti di non aver paura del virus ma a livello inconscio temerlo fortemente. Anche questo può indurre il corpo a reggire in modo spropositato.
Con questo non affermo che la cura contro la pandemia globale sia il semplice ottimismo. Sebbene l’ottimismo è già un’arma ben più potente del pessimismo o della paura che tende a far vedere gli scenari peggiori, deprimendo di conseguenza mente e corpo.

Una supposizione o profezia che per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità.

~ Merton, 1948 ~

Secondo la profezia autoavverante quello che pensiamo tendiamo a realizzare o ad attendere che si realizzi, condizionando, più o meno consapevolmente, il mondo intorno a noi. Quindi se per esempio ci aspettiamo il peggio da una malattia, faremo di tutto per renderla dannosa. E uno dei modi potrebbe anche essere quello di richiudersi in una gabbia di paura.
In ogni caso, nell’incertezza che la profezia autoavverante sia credibile come tesi, forse è meglio essere astuti e cercare di pensare in positivo. Questo non significa lasciare nelle mani del caso il tutto, bensì vuole dire: agire in modo positivo, costruttivo e sano. Coltivare.

La soluzione ottimale, indipendentemente dalla malattia e dai problemi che ci troviamo ad affrontare nella vita, è la consapevolezza (profonda) che la morte è solo un passaggio e che tutto quello che è legato ad essa va affrontato in modo equilibrato, neutrale, tranquillo e sereno. Solo in questo modo ci si può garantire un po’ di felicità nel tempo che abbiamo a disposizione nel nostro corpo mortale.
La paura non porta via la morte, ci illude soltanto di poterla rimandare all’infinito, rinchiudendoci in gabbie mentali che non ci fanno vivere serenamente. Motivo per il quale sono contrario a qualsiasi strategia di terrorismo psicologico, basato sulla paura. La cautela è un conto, il controllo basato sulla paura invece è un attentato alla salute mentale delle persone e quindi anche alla loro salute corporea.

Senza illudersi, ma rimanendo in compagnia della serenità

Quando la pandemia finirà, la morte continuerà ad esistere. Anche durante il covid le persone continuano a morire a causa delle guerre, per mancanza di cibo e di acqua pulita, per mancanza di cure, di povertà, per malattie e vecchiaia.
Dopo la pandemia forse ci saranno meno morti di quelli attuali o forse no, chi può dirlo? Solo i dati di statistica ci potranno dire in futuro come la vita (e quindi la morte) deciderà di muoversi nei confronti dell’invadente e distruttiva specie umana. Ammesso che questi dati non vengano manipolati.
Non possiamo fermare il processo degenerativo che ci porta alla morte, ne come individui ne come società. Siamo solo in grado di rallentare determinati processi, ma per farlo bisogna affrontare l’esistenza, nella sua complessità, in modo sereno ed equilibrato.

Nulla è permanente, tutto si trasforma. Buona vita.

© Valerio Bellone