rapoporto maestro allievo

Personalmente ho imparato il Taijiquan in tre modi. Il primo e più importante è stato l’insegnamento donatomi dai miei Maestri che mi hanno dato riscontri durante la pratica. Il secondo modo è stato attraverso il confronto con gli altri praticanti e il terzo modo equivale allo studio, alla ricerca e all’impegno personale. Nessuna di queste tre parti del percorso, nell’ambito del Taijiquan, può essere facoltativa. Tutte e tre devono coesistere. Le prime due devono essere la base indispensabile durante i primi anni (x) di apprendistato, con dei richiami una tantum, la terza deve permanere per tutta la vita.
Ciò detto, dal primo all’ultimo insegnante che ho avuto, li ho sempre chiamati Maestri o in cinese Shifu (師傅). Non per qualche bigotto motivo tradizionalista, ma per un senso di spontaneo rispetto che è nato in me ogniqualvolta ero in presenza di qualcuno che mi insegnava parte della propria conoscenza.
Per essere in grado di percepire quando l’insegnante è lì effettivamente per donarti qualcosa, devi però svuotarti dal pregiudizio, dall’involontaria (spesso inconscia) presunzione del “io so” e dal senso di pretesa. Gli allievi che arrivano innanzi a un insegnante con la pretesa di imparare, sono quelli che non imparano mai nulla e spesso mollano durante il percorso. Ricevere un sapere è un dono, soprattutto nelle pratiche di auto coltivazione. Andare a imparare il Taijiquan o pratiche affini come lo Yoga, non è come andare in palestra a fare Pilates o Zumba. Il che non vuole essere un’offesa implicita per queste pratiche ginniche ma solo una costatazione di diversità tra i percorsi.
Non si può pretendere il sapere all’interno delle pratiche psicofisiche, però lo si può accogliere. Quando si è pronti ad accogliere, il Maestro si manifesta. Sin quando non si è pronti ad accogliere, ci si potrebbe trovare anche innanzi a un Buddha e non essere in grado di percepirlo.

Anche quando qualche insegnante mi ha detto di dargli del tu, chiamandolo per nome, ho continuato a definirlo Maestro. Ognuno dei miei insegnanti, a modo suo, ha cercato di donarmi parte del proprio sapere, quanto meno quello che ero in grado di comprendere in quel momento. E già questo a me basta per definirli Maestri. Sin quando c’è generosità nell’insegnamento, a prescindere dalla bravura, dal talento o dall’esperienza dell’insegnante stesso, in quel momento quello è un Maestro con la “M” maiuscola.

Spesso sono andato sino dall’altra parte del mondo pur di imparare da un Maestro e non mi è stato concesso da una bontà divina che mi ha reso un ricco benestante che può vivere di rendita e fare quello che gli pare. Ho dovuto sacrificare moltissime cose per riuscire ad imparare dai miei Maestri e nel farlo ho vissuto cose tanto bellissime quanto dolorose, pur di raggiungere lo scopo: accogliere degli insegnamenti. Non sono certo l’unico ad aver fatto questo tipo di percorso, ma certamente coloro che hanno questo retroterra non smettono mai di stupirsi quando un allievo ti dice che non viene più al corso se cambi l’orario, il giorno di pratica o ti allontani da casa sua di 1 km.

Sono sempre stato grato ai miei Maestri e non mi è mai passato per la testa di giudicare negativamente le capacità, così come sono sempre grato a tutti i miei allievi che decidono di accogliere quel che posso passargli. Sebbene posso involontariamente farmi un’idea generica su una persona, nel caso di un Maestro quell’idea la tengo per me. Questo perché l’uomo che c’è dietro al Maestro svanisce nel momento in cui questo veste i panni dell’insegnante. Certamente ogni modo di insegnare rispecchia la personalità e la storia della persona, ma se c’è generosità nell’insegnamento questo non influisce sull’aspetto più importante che è il momento di scambio durante la pratica. Uno scambio-ascolto che, va ribadito, può esistere solo se l’allievo è in grado di svuotare il proprio bicchiere colmo delle proprie esperienze di vita. A tal fine serve un approccio umile.

Non comprendo chi polemizza verso il proprio Maestro, contestandogli il metodo. Ricorda che sei tu che stai chiedendo di imparare, non è l’insegnante che ti ha cercato chiedendoti di ascoltare. Se chiedi a una persona di imparare qualcosa ma al contempo gli dici come quella cosa deve essere insegnata, la risposta si riassume in modo sarcastico: “se sai già come qualcosa va insegnato allora significa che puoi già insegnarla, quindi perché fare l’allievo? Vai a fare l’insegnante!”.
Fare l’allievo non è un obbligo ma un piacere. Se hai pazienza e ti fidi del tuo insegnante prima o poi imparerai quel che serve a tempo debito. Questo non significa che non puoi porre quesiti durante la pratica che, al contrario, dovrebbe essere un momento nel quale ci sono domande giuste al momento giusto.

Mi è capitato che i miei Maestri mi chiedessero cosa volevo imparare, cosa mi interessava… la mia risposta è sempre stata la stessa: “sono qui per imparare, il Maestro è lei”. Successivamente, durante la pratica, ho posto leciti e rispettosi quesiti quando non capivo qualcosa. A quel punto la vera capacità da allievo è stata quella di fidarsi delle risposte date dall’insegnante, non quella di fare domande per poi contestarne le risposte.

In un bicchiere già pieno non vi è nulla che può essere versato.

Se vai per imparare pensando di sapere cosa devono insegnarti, forse è meglio non andare. Se inizi a lamentarti e pretendere, non è semplicemente offensivo nei confronti di chi è li per insegnarti, è anche un facile indizio su chi sei, almeno in quel momento della tua vita.

Alcune cose che un allievo deve evitare quando vuole imparare il Taijiquan o una pratica affine.

  1. Dire ripetutamente di avere capito senza nemmeno sapere di cosa sta parlando.
  2. Giudicare, contestare, fare polemica, parlare sopra l’insegnante che spiega (come se si stesse partecipando a un talk show di basso livello), o fare pettegolezzo all’interno di una classe.
  3. Sparlare le altre scuole senza ancora nemmeno essere in grado di mettere una gamba davanti all’altra. Ogni scuola va rispettata sempre, a maggior ragione se ancora non hai idea di cosa stai parlando. Quindi pesna al tuo fare, non a quello che fanno gli altri.
  4. Non riuscire mai a liberarsi dal frustrante senso di competizione interiore che si ha nei confronti degli altri, generando in sé sentimenti nocivi e non costruttivi. All’interno di una classe dovrebbe esserci supporto vicendevole, aiuto reciproco e scambio tra i vari studenti.
    Chi ha capito qualcosa in più oggi aiuta chi ha capito qualcosa in meno, in un gioco di ruoli mutevole e vicendevole.

Spesso in occidente molti studenti tendono a confondere i ruoli. Questo accade perché con il passare del tempo si innesca un rapporto che va oltre il livello insegnante/allievo. Per questo in Cina le classi interne vengono definite famiglie. Eppure su questa idea di famiglia si è creato un fraintendimento. A prescindere dal livello di confidenza che si è instaurato, frutto di una lunga condivisione, nel momento della pratica l’insegnante deve tornare insegnante e l’allievo deve saper tornare a fare l’allievo. Viceversa il rapporto smette di funzionare. L’insegnante, nel momento della pratica smette di essere un tuo parente, un tuo amico o qualsiasi altra cosa. È solo l’insegnante e come tale va rispettato. Se si confonde dentro di sé il ruolo, si perde qualsiasi possibilità di vero apprendimento e l’insegnante perde, di conseguenza, qualsiasi interesse nel donarti quel che sa. Se in Asia questo tipo di relazione è solitamente ben conosciuta e rispettata, lo stesso non si può dire in occidente, nel quale puntualmente si tende a fare un minestrone tra rapporto personale/intimo/amicale e rapporto insegnante-allievo. Se gli asiatici da millenni distinguono i due momenti di vita c’è un motivo che non è solo formale, ma bensì sostanziale.
Quando ti rivolgi all’insegnante lo devi fare con rispetto, quando ti rivolgi all’amico che c’è dietro all’insegnante può esserci tutto il resto, scherzo compreso, ma questo riguarda la vita al di fuori della classe di insegnamento.

© Valerio Bellone