taijiquan pacifismo natura inversa

Ho impiegato diversi anni a comprendere qualcosa che non fosse superficiale in merito al Taijiquan e nel momento in cui mi è stata più chiara la teoria ho capito che la mia pratica era in parte errata perchè basata su false convinzioni.

Il Taijiquan è una pratica di natura inversa. Questo significa che per capirlo bisogna azzerare tutto quello che si conosce o che si pensa di aver capito in precedenza attraverso altre pratiche. Un problema non facile da superare ma che è necessario risolvere, dato che l’involontaria presunzione, la convinzione del sapere e del fare, non vanno per nulla d’accordo con la pratica del Taijiquan.

Non è sufficiente dire a sé stessi di “essere dei bicchieri vuoti” quando si inizia a praticare il Taichi. Se a muovere verso la pratica del Taijiquan è la superbia dell’ego che vuole accumulare conoscenza per i propri scopi, si è già in buona parte impossibilitati a entrare nel vero percorso. In tal senso la cosa più complessa è divenire consci di quello che si è attualmente, piuttosto che di quello che si pensa già di essere… così da disfarsene.

Molti si convincono che il Taijiquan non è diverso da altre arti marziali e costoro sono quelli che vanno fuori strada; altri intuiscono che il Taijiquan è diverso da altre discipline marziali ma non riuscendo a capire come incarnarne i principi finiscono per trovare soluzioni che sono tipiche di altri sistemi.

Qualsiasi sistema creato in ambito combattivo, a prescindere dal livello di lavoro interno/esterno che lo caratterizza, non si discosta dalla pratica della mente reattiva. Ovvero: per ogni stimolo c’è una reazione preordinata o istintiva.
Ogni arte marziale lavora fondamentalmente attraverso lo stesso metodo, a prescindere dal sistema, dalle abilità e dalle tecniche.

Durante la crescita nel Taijiquan ci si dovrebbe liberare gradualmente dalla reazione basica di “mossa e contromossa” e dall’agitazione. Tutte le arti marziali, a prescindere da quanto si è bravi, si basano su una reazione istintiva fondata sull’abitudine al combattimento, attraverso stimoli e schemi motori. In questo senso sono tutte uguali, in modo non diverso da quello che si fa anche nello sport da combattimento e non solo. Una sola arte marziale sembra fare eccezione, il Taijiquan.


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L’unica pratica che nel corso del tempo ho capito essere uguale all’essenza del Taijiquan è il pacifismo. Il pacifismo è una filosofia di vita che come il Taijiquan ha una “natura inversa”, ovvero consiste in una coltivazione pratica che porta l’individuo al rifiuto totale del proprio istinto combattivo, spinge quindi alla non-violenza.

Il pacifismo porta l’essere umano a fare qualcosa che risulta innaturale, ovvero non reagire con lotta violenta persino quando ci si trova innanzi a un atto di violenza. Il vero pacifista preferisce essere crocifisso piuttosto che vedere sé stesso o gli altri combattere con violenza. Idea apparentemente facile da comprendere, dato che ci sono diversi personaggi storici che hanno dato tale esempio, ma quasi impossibile da mettere in pratica per le persone comuni vittime dei propri turbamenti. Non è un caso se i singoli individui che sono riusciti in questo intento, nel corso della storia, sono stati chiamati: buddha, divinità, illuminati, santi, figli di dio, creature di luce, uomini/donne di pace, ecc.

Anche nel corso della storia del Taijiquan diversi Grandi Maestri hanno tramandato l’idea che raggiungendo il più alto livello dell’arte si conquista una natura definita in vari modi bizzarri: eroica invincibilità; capacità divina; dimensione sovrannaturale; essere taiji; ecc.
Il problema di fondo è che il Taijiquan di alto livello è sempre stato proposto il più delle volte attraverso l’aspetto marziale. Per tale motivo la maggior parte dei praticanti si sono sempre focalizzati su quel che riguarda il combattere, convincendosi che appellativi come “eroica invincibilità” facciano riferimento ad abilità di così alto livello da rendere fisicamente invincibili. Nulla di più sciocco e illusorio.

L’alto livello del Taijiquan, almeno quello più facilmente raggiungibile, ovvero la parte teorica, si comprende attraverso uno studio minuzioso dei manuali storici del Taijiquan ( i Classici del Taichi) e di molti altri testi successivi, oltre allo studio dei testi cardine del daoismo (Yijing, Daodejing, Zhuangzi). Per comprendere profondamente questi testi è richiesta grande apertura mentale e sensibilità – frutto di una vasta gamma di esperienze e stimoli di vita – ed enorme capacità tanto di immedesimazione quanto di empatia. Ergo, è necessario un totale rispetto della vita altra, a prescindere dalla natura e dalla manifestazione della forma di vita innanzi alla quale ci si trova. Questo perché qualsiasi forma di vita ha la medesima fonte. Senza determinate capacità interiori il rischio è di leggere i testi citati in modo analitico, ovvero utile per i fini dell’ego che ha come scopo il dimostrare a sé stesso, così come agli altri, di essere erudito.

A ogni modo, una volta compresi i messaggi insiti nei testi detti Classici si può giungere a una sola conclusione possibile, ovvero che nell’ambito dell’arte marziale dello yin-yang (il Taijiquan), combattere mentalmente, verbalmente e fisicamente con gli altri è qualcosa di contrario all’arte stessa. Ne consegue la domanda più ovvia: come può essere un’arte combattiva, non combattiva? La risposta non è certo semplice.

Il primo passo nella comprensione del Taijiquan è quello di riconoscere i propri limiti, comprendendo di essere innanzi a qualcosa di talmente vasto dall’essere non facilmente raggiungibile. Quando si inizia a pensare di avere capito il Taijiquan già si è smesso di comprenderlo. Essendo il Taijiquan (arte marziale – quan – della suprema polarità – taiji) una pratica che riguarda la fonte, ovvero il movimento delle energie yin-yang che hanno creato ogni cosa, come si può pensare di poterlo capire con facilità? Come può un’emanazione della fonte comprendere e spiegare la fonte stessa? Trattasi di una presunzione che oggi lascio volentieri ad altri. E infatti, a livello pragmatico terreno, ho definito il Taijiquan, non casualmente, pratica di natura inversa, ovvero che va contro la natura ordinaria di quello che la natura umana solitamente intuisce.

Spiegare teoricamente come dovrebbe funzionare il Taijiquan a livello pratico è uno scopo troppo complesso per riassumerlo in un articolo, motivo per il quale rimando al mio libro intitolato I Tre Classici del Taijiquan di Wang, Wu e Li”, ovvero la traduzione dal cinese con commentario in italiano dei più importanti manuali della storia del Taijiquan.

In questo articolo può essere detto che il Taijiquan consiste nella resa, nel non avere alcuna premeditazione o intenzione. Esso è una spinta a divenire puro equilibrio yin-yang, essere in armonia, ovvero: “essere Taiji” anziché “essere umani”.

Seguire un “avversario” aderendo al suo intento, senza farsi investire da esso, è qualcosa che sembra facile quando si vuole mettere in atto la teoria del Taijiquan. Ma non lo è affatto. Difatti solitamente i praticanti risolvono a livello pratico l’abilità “seguire aderendo” attraverso specifiche tecniche che sono utili al controllo dell’altro tramite una personale reazione che poco ha a che fare con la qualità vera appena citata. Una reazione, qualsiasi essa sia, di fatto già non è Taijiquan.

Come per il pacifismo, per riuscire a entrare nell’idea del vero Taijiquan, bisogna prima uscire dall’idea di voler reagire, a prescindere dalla modalità e da cosa si sta subendo. Si deve abbandonare l’idea di volere fare qualcosa di attivo, diretto, in contrasto e contrario. Bisogna quindi essere dei “combattenti pacifisti” che è ovviamente un ossimoro utile, ancora una volta, a sottolineare la natura inversa del Taijiquan. Bisogna quindi essere neutrali e diventare una sola cosa con il “tutto”.

Certamente la spiegazione fatta sin qui non è esaustiva, ma forse dona una prima comprensione del perché durante la pratica del Taijiquan bisogna “investire nella sconfitta” (cit. Cheng Man Ching). Investire nella sconfitta significa rinunciare a qualsiasi idea di vittoria sull’altro e di azione conseguente a reazione.

Se la spinta verso le arti marziali è il risultato del voler trovare metodi per vincere durante uno scontro, è certo che il Taijiquan non è la strada da percorrere. Infatti in questo caso il Taijiquan risulterebbe frustrante e incomprensibile, oppure verrebbe falsato attraverso soluzioni che non sono proprie dell’arte stessa.

Per intraprendere il percorso del Taijiquan, che porta “all’eroica invincibilità”, bisogna rinunciare a sé stessi e donarsi agli altri. Bisogna essere quindi in pace, essere sereni, ovvero: felici. Non cercare null’altro che la serenità conseguente al distacco dal proprio ego, dai desideri e dalle illusioni.

Essere felice equivale a liberarsi dalla gabbia dell’ego, ovvero dal costante tentativo di riempire il vuoto interiore attraverso la realizzazione dei desideri. L’ego ha costantemente fame e il vuoto che crea non può essere colmato da ciò che è esterno a se stessi.
Nessuna abilità o bene materiale infatti può appagare l’ego a lungo termine. Quindi si deve comprendere che non si ha alcun bisogno di essere il combattente più forte, un grande medico, lo sportivo vincente, il più bello, il più in vista, il più bravo, colui che ha più potere, più soldi, più seguaci, che fa carriera più velocemente e via dicendo. Tali obiettivi sono false mete e non donano nessuna vera felicità, nessuna saggezza, nessuna illuminazione.

La felicità risiede nella semplice serenità di colui che coltiva la pace interiore. Quando si riesce a trasmettere serenità alla propria famiglia e agli altri, quando si è sereni nel fare e si trasmette amore, si ha già vinto la più grande battaglia della vita. Quella con il proprio ego, che in questo contesto può essere immaginato come il complesso di istinti ancestrali, una sorta di scimmia arrabiata dentro la propria testa.

Il distacco dall’ego porta a essere già un “Buddha”, ovvero un essere luminoso che illumina la Via a coloro che non la vedono o che la percepiscono appena.

La Via è donarsi agli altri, piuttosto che scontrarsi costantemente con la vita. Se ognuno sapesse fare questo non esisterebbero guerre e sistemi di lotta utili a prevaricare. Ci sarebbe un’umanità che vivrebbe in un modo diverso da quello attuale fatto di accumulo, crescita e competizione come nel racconto   Viaggio nel nostro presente di uno sciamano del passato. Si potrebbe vivere nel segno della natura di tutte le cose, tramite collaborazione, cura e aiuto reciproco.

Quando si giunge alla consapevolezza del fare-senza-fare (wu-wei-wu) e si impara a riconoscere lo scalpitio dell’ego che vuole combattere ed emergere attraverso diverse forme, si è già il Grande Maestro della propria vita, non si ha nulla da dover dimostrare a nessuno, nemmeno a sé stessi.

Contrariamente a quanto per lungo tempo è stato insegnato e divulgato attraverso i mass media, la felicità non è una cosa da conquistare attraverso la competizione e lo scontro, non è un accumulo di beni, non è una scalata che deve portare in vetta, non ha nulla a che vedere con la falsificazione dell’originale idea darwiniana, dove c’è solo chi vince e chi perde. Bensì è la capacità di dimorare nella pace durante il percorso.

La felicità emerge dalle pieghe di ogni attimo in cui si ama il prossimo. Non bisogna farsi influenzare dalla superbia del “combattente” che gode nell’auto lodarsi e nel mostrare trofei e risultati conquistati con le unghie e con i denti. Costoro non sono felici, al contrario dimorano una grande sofferenza interiore che viene offuscata con stratagemmi esterni. Sono semplici vittime, come chiunque altro.

Una volta un Buddha mi disse: “stai tranquillo fratello, sei nel normale circolo della sofferenza, continua il tuo cammino cercando la serenità”.

Quando si impara a riconoscere il proprio ego, si è in grado di vedere quello altrui. Quando si riesce a rispondere all’aggressione del proprio e altrui ego con amore, si ha già “capacità divine” e si può mostrare agli altri la Via della “eroica invincibilità”, che equivale a essere portatori di pace, senza alcuna necessità di gloria. Come disse Rabindranath Tagore:

Colui che pianta alberi, sapendo che non siederà mai alla loro ombra, ha infine iniziato a comprendere il significato della vita.


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Written by

Valerio Bellone

Valerio Bellone studia e fa continua ricerca sul Taichi Chuan, il Qi Gong e la Meditazione. È autore del primo e unico saggio mai scritto in italiano sui primi tre Classici del Taijiquan cinesi.
Il suo percorso inizia con il wushu moderno e successivamente si sposta alla fonte della tradizione del Taiqjiuan studiando inizialmente lo stile di Cheng Man Ching e successivamente lo stile madre originale della famiglia Yang.
Tiene regolarmente corsi di Taichi, Qi Gong e Meditazione nella città di Palermo e scrive articoli di divulgazione su queste materie.